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Il massacro dimenticato, 46 fascisti sepolti nei tunnel trevigiani.

 


Il massacro dimenticato, 46 fascisti sepolti nei tunnel trevigiani.
Dobbiamo ancora considerare una festa unitaria il 25 aprile? Si apre con questo interrogativo retorico il nuovo lavoro di Giampaolo Pansa I vinti non dimenticano. I crimini ignorati della nostra guerra civile (Rizzoli, 466 pp, 19.50 euro), da oggi in libreria. Si tratta dell’ennesimo saggio revisionista sulla Resistenza (e non crediamo certo di offendere l’autore: «Mi sono stancato di distinguere tra morti buoni e morti cattivi. Il mio revisionismo sta tutto qui»), destinato a rinfocolare le polemiche e, aspetto più interessante, a confermare, se ce ne fosse bisogno, quanto illusoria possa essere la volontà di affermare l’esistenza di una memoria condivisa in un Paese, come l’Italia, dove è proprio il conflitto a porsi come elemento identitario principale. Tra tutte le «memorie» italiane, Pansa, come ormai ci ha abituato da tempo, privilegia quella degli sconfitti, la memoria di coloro «che non debbono ricordare», ma che non dimenticano, come recita il titolo; la memoria dei fascisti, militanti, simpatizzanti o ritenuti tali, ma anche la memoria di tanti altri morti che non erano schierati con nessuno, come gli italiani del confine orientale o come le vittime dei bombardamenti inglesi ed americani (si fa cenno anche a quello di Treviso del 7 aprile 1944, dove in cinque minuti di inferno perirono ben 1600 persone tra cui 123 bambini, forse per un errore di puntamento).
E con il consueto stratagemma narrativo del dialogo con Livia, la bibliotecaria che lo aveva accompagnato nel viaggio per scrivere Il sangue dei vinti, il giornalista piemontese giunge ancora una volta in terra veneta, precisamente a Valdobbiadene, per raccontare il destino di 46 militari fascisti della X Mas, appartenenti al Battaglione Nuotatori Paracadutisti, i cosiddetti Np («Ennepì»), arresisi ai partigiani al tacere delle armi. Il reparto di fanteria d’assalto Np, composto da 650 uomini e comandato da Nino Buttazzoni, un triestino del ’12 («uomo tarchiato, atletico, capace di gesti molto generosi»), nei primi giorni di marzo del 1943 era dislocato in addestramento proprio nella cittadina pedemontana, dopo aver combattuto in Piemonte e nel Goriziano. Ricevuto il 9 l’ordine di trasferirsi con i sottoposti sul fronte del Senio, in Romagna, per contrastare l’avanzata alleata, il Buttazzoni decise di lasciare nella caserma di Valdobbiadene gli uomini meno adatti all’asprezza dei combattimenti: i marinai troppo giovani o troppo anziani, quelli non in perfetta forma fisica o con pesanti obblighi famigliari. In 47 rimasero, 47 uomini che alla fine dell’aprile del 1945, quando ormai i giochi erano fatti e la Repubblica Sociale viveva i suoi ultimi giorni, si arresero ad una brigata delle Garibaldi, la Mazzini, consegnando armi, veicoli ed una quantità cospicua di denaro dopo aver ricevuto in cambio il patto di aver salva la vita.
Come descrive un rapporto dei carabinieri di Valdobbiadene, compilato nel giugno del 1950, nella notte tra il 4 ed il 5 maggio del 1945, a guerra ormai conclusa, ai 47 marinai fu ordinato di salire su tre camion per raggiungere un campo di concentramento. Il primo camion, con a bordo anche due donne ed un anziano, si diresse verso Saccol, piccola frazione poco distante; qui i prigionieri furono ammassati in una galleria e massacrati a colpi di mitra e bombe a mano. Carlo Armando, un ventenne nativo di Altavilla Irpina in provincia di Avellino, nonostante l’ingresso del tunnel fosse stato fatto saltare, fintosi morto, appena i partigiani se ne furono andati, riuscì a trovare una via di fuga riparando in una casa di contadini che lo soccorsero e curarono. Il secondo autocarro fu condotto sempre nei pressi, a Madean, dove i marò furono picchiati, derubati, assassinati, gettati in una fossa ed i loro cadaveri dati alle fiamme. Stessa sorte ai passeggeri del terzo veicolo, quello che raggiunse Segusino. Tra le vittime dell’eccidio vi erano un diciottenne e due diciassettenni. Analizzando poi la status sociale degli uccisi si scopre che per metà si trattava di studenti; vi erano poi meccanici, impiegati, tornitori, fotografi, contadini, macellai, artigiani, insegnanti, commercianti. La stessa Italia che combatteva sul fronte opposto. E che possiede certamente altra memoria.
(Alessandro Tortato - Corriere del Veneto 06 ottobre 2010)

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