Oggi la "Giornata del ricordo" per celebrare
gli italiani cacciati e uccisi da Tito dopo la guerra. Una tragedia che nella
gerarchia del dolore sta sempre dietro le vittime delle dittature fasciste.
Cos'era
accaduto sulle coste orientali italiane dell'Adriatico dopo la guerra? Niente
di rilevante, avrebbero voluto rispondere chi governava l'Italia e chi da
sinistra faceva l'opposizione.
Soltanto un
nuovo confine segnato con un tratto di penna sulla carta geografica
dell'Europa. Vite negate. Amori, amicizie, speranze sconvolte, sentimenti
calpestati, che per pudore, in silenzio, lontano da occhi inquisitori, l'esule
arrivato dall'Istria, dalla Dalmazia, da Fiume chiudeva nel dolore, forse
sperando che questo dignitoso comportamento lo aiutasse ad essere accolto da
chi non ne gradiva la presenza. Si chiudeva così il cerchio dell'oblio, e una
pesante coltre di omertà si distendeva sopra le sconvenienti ragioni degli
sconfitti.
La Storia
non apre le porte agli ospiti che non ha invitato. Sceglie i protagonisti e i
comprimari, anche se gli esclusi si sono dati tanto da fare. Esuli, allora, con
la nostalgia del ritorno, con il dolore dell'assenza. L'esule dei Paesi
comunisti non è mai stato troppo gradito; le sue scelte giudicate con sospetto.
Nella gerarchia morale della sofferenza, egli rientra stentatamente, sì e no,
agli ultimi posti, molto indietro rispetto agli esiliati delle dittature
fasciste e dei sanguinari regimi latino-americani.
In una
intervista a Panorama del 21 luglio 1991, Milovan Gilas dichiarava tra l'altro:
«Nel 1946, io e Edward Kardelij andammo in Istria a organizzare la propaganda
anti italiana ... bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di
ogni tipo. Così fu fatto». Gilas era il braccio destro di Tito, l'intellettuale
del partito comunista jugoslavo; Kardelij era il teorico della «via jugoslava
al comunismo», punto di riferimento dell'organizzazione della propaganda anti
italiana.
Dunque, due
protagonisti di primissimo piano del partito comunista jugoslavo impegnati a
cacciare con «pressioni di ogni tipo» gli italiani dalle loro case, dal loro
lavoro, dalle loro terre. Tra le pressioni di ogni tipo ci furono il terrore e
il massacro: una pulizia etnica. A migliaia gli italiani, senza nessun
processo, senza nessuna accusa, se non quella di essere italiani, venivano
prelevati di notte, fatti salire sui camion e infoibati o annegati. Non si
saprà mai quanti furono ammazzati. A decine di migliaia: una stima
approssimativa è stata fatta sulla base del peso dei cadaveri che venivano
recuperati dalle foibe; nulla si sa degli annegati.
E poi gli
esuli: oltre 350mila, che lasciarono tutto, pur di rimanere italiani e vivi.
Accolti in Italia con disprezzo, perché solo dei ladri, assassini, malfattori
fascisti potevano decidere di abbandonare il paradiso comunista jugoslavo.
Ricordo bene quando a Venezia arrivavano le motonavi con i profughi: appena
scesi sulla riva, erano accolti con insulti, sputi, minacce dai nostri
comunisti, radunati per l'accoglienza. Il treno che doveva trasportare gli
esuli giù verso le Marche e le Puglie, dai ferrovieri comunisti non fu lasciato
sostare alla stazione di Bologna per fare rifornimento d'acqua e di latte da
dare ai bambini.
Alla gente
che abitava l'oriente Adriatico, fu negato dal nostro governo il plebiscito che
avrebbe dimostrato come in quelle terre la stragrande maggioranza della
popolazione fosse italiana. Prudente, De Gasperi pensava che l'esito del
plebiscito avrebbe turbato gli equilibri internazionali e interni col PCI. A
quel tempo, Togliatti aveva fatto affiggere questo manifesto a sua firma:
«Lavoratori di Trieste, il vostro dovere è accogliere le truppe di Tito come liberatrici
e collaborare con esse nel modo più stretto». Per esempio, sostenendo, come
voleva il Migliore, che il confine italiano fosse sull'Isonzo, lasciando a Tito
Trieste e la Venezia Giulia.
I liberatori
comunisti non potevano essere degli assassini: e così, sotto lo sguardo
ipocrita dell'Italia repubblicana, con la vergognosa collaborazione degli
storici comunisti, disposti a scrivere nei loro libri il falso, quella tragedia
sparisce, non è mai accaduta. Ma il cammino trionfale della Storia dei vincitori
si distrae e la verità incomincia ad affiorare. Non si dice con ottimismo che
il tempo è galantuomo? Stavolta sembra di sì. Il 10 febbraio (giorno della
firma a Parigi nel 1947 del trattato di pace) viene istituita nel marzo 2004 la
«Giornata del ricordo», per celebrare la memoria dei trucidati nelle foibe e di
coloro che patirono l'esilio dalle terre istriane, dalmate, giuliane. Ci sono
voluti sessant'anni per incominciare a restituire un po' di verità alla Storia:
adesso sarebbe un bel gesto che il nuovo Presidente della Repubblica onorasse
questa verità ritrovata, recandosi al mausoleo sulla foiba di Basovizza per
chiedere scusa alle migliaia di italiani dimenticati, offesi, umiliati,
massacrati soltanto perché volevano rimanere italiani.
di Stefano Zecchi (Giornale) 10.02.2015
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