Quell'oblio mortificante sulle stragi rosse
Il testo di Armando De Simone e Vincenzo Nardiello, "Appunti per un libro nero del comunismo italiano", ripercorre le vicende più oscure del Pci
Il comunismo? Per Saragat era la tragedia del proletariato. E tante altre sono state le definizioni in questi ultimi decenni. La politica di chi ha cercato di sfamare i popoli ed invece ha affamato il mondo sta subendo un processo storico che qualcuno vorrebbe nascondere o spazzare via.
Vi è stato un tempo in cui la politica, in Italia, ha avuto i caratteri dell'incubo. Quest'epoca di ferro non è durata poi molto, se si va a vedere. Dieci anni: fra il 1946 e il 1956; fra elezioni per la Costituente e i fatti d'Ungheria. Ma poco prima, dalle nostre parti, si erano consumate storie rosso sangue, stragi disumane, Portula, Schio. E, oltrecortina, il terrore dei gulag ha cambiato per sempre il volto dei paesi dell'Est. Qualcuno ha tentato, dopo il crollo del comunismo mondiale, con la democratizzazione e la decisione di liberarsi degli stereotipi del marxismo, di far luce su tutti quegli episodi che hanno sconvolto il mondo. Su crimini e misfatti stava calando definitivamente il sipario. Ma quando si comincia a fare i conti con la propria storia è molto difficile fermarsi a metà. E così, mentre nel mondo si continua a discutere chi fu in realtà Giuseppe Djiugasvili, detto Stalin, se quel magnifico georgiano di cui parlò Lenin o il tiranno sterminatore di contadini bollato come il grande criminale, un lucido stratega o un piccolo uomo precipitato nella vertigine della Storia, lo statista che seppe strappare la Russia alla sua condizione o la causa prima di tutti i mali che affliggono ancora oggi l'Est europeo, ho letto scrupolosamente, appassionatamente il testo dei giornalisti Armando De Simone e Vincenzo Nardiello che si intitola Appunti per un libro nero del comunismo italiano (Controcorrente, pagg. 317, lire 30.000). Uno squarcio che si riapre su un'epoca buia.
Per non dimenticare quelli che vengono considerati gli errori di Togliatti e di quanti altri come lui sono stati giovani comunisti stalinisti.
Già, nell'Unione Sovietica era stato costruito il migliore dei mondi possibili. Sull'Unità era impossibile leggere una critica piccola, piccolissima al Paese del socialismo. A Mosca tutto era perfetto. Eppure, si sapeva tutto, dei gulag e di quanto altro ha combinato Stalin. E quando ci si trovava di fronte alla linguistica di Stalin, i comunisti italiani parlavano con vaghezza di infallibilità. Nonostante il Ritorno dall'Urss di André Gide era stato scritto. Così come Buio a mezzogiorno di Koestler era stato anche tradotto, letto e discusso abbondantemente. Ma probabilmente non furono compresi. Poi, la svolta di quanti hanno riformulato il loro rapporto con il comunismo e con lo stalinismo e sono andati avanti per la loro strada, dentro o fuori il Pci, ed oggi non si danno pace. Tormentati da ombre e fantasmi.
Ripercorrere una parte della storia del Pci attraverso ricerche storiografiche e documenti e valutarne gli esiti è stata senz'altro una esperienza irripetibile per gli autori di questo saggio ricco di spunti critici. Pagine da leggere voracemente, dall'intervista allo storico Stéphane Courtois, già noto per aver dato alle stampe il Libro nero del comunismo, agli eccidi dopo il 25 aprile, la strage di Portula e le vicende di "Gemisto", ovvero Francesco Moranino, raccontate da Giorgio Bocca nella sua Storia dell'Italia partigiana che, "dopo aver trascorso, dal 1941 al 1943, tre anni in carcere a Civitavecchia insieme a comunisti 'storici' come Pesenti e Scoccimarro per una condanna a dodici anni, fu liberato, tornò in Piemonte, divenne partigiano e scelse il nomignolo di 'Gemisto'". E che divenne deputato, a ventisei anni, nel 1946, nell'assemblea costituente. "Un caso esemplare della storia comunista in questo Paese. Il Pci, per salvare un proprio deputato, nominato sottosegretario alla Guerra, che si era macchiato di svariati omicidi durante la guerra partigiana ai danni d'altri partigiani 'bianchi', e per il quale la Camera aveva autorizzato l'arresto, prima lo fece scappare in Cecoslovacchia, dove esercitò l'incarico di commissario politico del Pci, poi, al momento dell'elezione di Saragat a presidente della Repubblica, contrattò i propri voti con la concessione della grazia presidenziale al fuggiasco". Il caso Moranino è raccontato con dovizia di particolari proprio come la strage del '45 nella prigione di Schio, ove un gruppo di ex partigiani uccise 53 detenuti accusati di collaborazione con i fascisti. Un altro eccidio dimenticato.
O le gesta della Volante Rossa, quel gruppo che, "nell'immediato dopoguerra a Milano, eseguì decine di 'condanne a morte'". Oppure, in perfetto stile staliniano, il gulag all'italiana, la "Cartiera" di Mignagola di Carbonera, in provincia di Treviso, "una piccola 'Auschwitz'… un campo di sterminio per fascisti o presunti tali, contro i quali un gruppetto di partigiani comunisti si accanì con una ferocia e una crudeltà raccapricciante: processi farsa, torture da enciclopedia delle perversioni, violenze d'ogni tipo, assassini ispirati dal più degradato sadismo, forni crematori, corpi straziati, buttati nel fiume, sciolti nell'acido o arsi nei forni della cartiera". Nel libro è riportato il racconto del senatore Antonio Serena, autore de "I giorni di Caino", che parla di Villa Dal Vesco, la "Villa degli orrori", dove "tutti i documenti dei prigionieri erano preventivamente distrutti dal 'tribunale del Popolo'". "Ad un prigioniero poliomielitico, prima di essere abbattuto a fucilate, fu imposto di arrampicarsi su di un mucchio di carbone". Poi, il delitto di Malga Bala, la strage del Monte Manfrei, in Liguria, "Quando i comunisti ammazzavano i sacerdoti", la questione di Trieste negli anni '43-'45, I morti di via Medina, a Napoli, e la preparazione del colpo di Stato, che prevedeva "la costruzione di campi di concentramento regionali per gli oppositori".
Su quelle vittime, ancora oggi vi è un silenzio tombale, un oblio mortificante.
Nella seconda parte, c'è una accurata analisi di quella che fu definita la "Gladio Rossa", l'esercito clandestino del Pci, un apparato paramilitare. Poi, la persecuzione subita dai comunisti italiani in Unione Sovietica e "i benefici finanziari ottenuti dall'Urss grazie all'azione del Pci ai danni dell'Italia".
Nella quarta parte, il dossier Mitrokhin, storia di "spioni" del Bel Paese al soldo sovietico. I giornali, soprattutto quelli di opposizione al centrosinistra a guida Ds, ne hanno parlato a lungo. "Divulgato in Italia nel mese di settembre '99 come l''apertura degli archivi segreti del Kgb', il rapporto consta di una serie di schede trascritte dall'archivista Vassilij Mitrokhin, definito dagli agenti inglesi come 'ex agente del Kgb attendibile ma parzialmente informato'". Seicentoquarantacinque pagine ricavate dagli appunti dell'ex funzionario della Lubianka con tutte le spie italiane nella rete rossa del Kgb, nomi e date della storia del nostro Paese dal dopoguerra al 1984. Sino alla sesta parte del libro, tra interviste ed interventi sull'argomento che il tempo, incredibilmente, sembra aver cancellato. E' terribile infatti pensare che queste storie lontane oggi non interessano nessuno. E il motivo è da ricercare anche nel comportamento dei funzionari del Pci alla fine degli anni Ottanta.
Nell'89, a 68 anni dalla scissione di Livorno, il partito fondato nel 1921 da Gramsci e Bordiga, la forza politica che di lì a poco si chiamerà Pds, voleva chiudere al più presto possibile le polemiche sul comunismo, reale o nuovo, e sancire, con l'adesione all'Internazionale socialista, la sua collocazione nella sinistra democratica e riformista. Tuttavia, grazie anche a testi come "Appunti per un libro nero del comunismo italiano", il sangue della storia non è asciugato in fretta e, citando Goethe, è facile dire che l'altezza della quercia si misura quando è caduta. Da una parte quindi c'è stato il continuismo minoritario di quanti non se la sentono di riconoscere il fallimento storico del comunismo ed hanno coltivato l'illusione di salvare il salvabile temendo al tempo stesso che il Pci, rinunciando alla specificità che storicamente ha contraddistinto i comunisti dalle altre forze di sinistra, era destinato a perdere la propria ragion d'essere. Dall'altra invece c'è stato un continuismo di segno opposto, che ha trovato largo credito nel nuovo gruppo dirigente, secondo cui il partito di Gramsci e di Togliatti sarebbe stato fin dall'inizio sostanzialmente diverso dai suoi confratelli e pertanto, attestandosi successivamente su posizioni socialiste e riformiste non avrebbe fatto altro che sviluppare la sua vocazione originaria. L'ondata di piena che ha travolto argini che sembravano indistruttibili non poteva essere ignorata dal Pci. Achille Occhetto, di fronte alla catastrofe, al crollo del comunismo sovietico e del suo simbolo, il Muro di Berlino, annunciò nuove proposte e nuovi progetti. Il Pci cambiò nome, lasciando però invariata la sostanza del suo modo di essere. Il vecchio nome rappresentava la memoria di sé, una memoria che non poteva essere cancellata. Come i crimini dopo il 25 aprile. Ma l'essere comunisti allora, in quegli angosciosi e lunghissimi anni, era cosa incomparabilmente diversa dall'essere comunisti oggi, o dall'esserlo stati ieri, ai tempi di Cuba e del Vietnam. L'essere comunisti allora significava credere in modo assoluto nella innegabile grandezza di Stalin e nella intelligenza infallibile di Togliatti, che adesso qualcuno vorrebbe dimenticare, magari rifacendosi al tavolo da gioco. Ora i compagni che sino a ieri l'altro alloggiavano in via delle Botteghe oscure passano le giornate ad odiare il loro passato, pensando a cose simmetricamente opposte a quelle che hanno pensato allora. Con la stessa fermezza di un tempo. E sono tutti in prima fila, tutti in cattedra di anticomunismo. Niente da stupirsi, di fronte a questo exploit del trasformismo italico. Ci hanno ripensato, ed ora citano Torquato Tasso: "Ché nel mondo mutabile e leggero, costanza è spesso il variar pensiero". Li ritroviamo tutti nei posti di comando, nei giornali e nelle televisioni, storici, filosofi, giornalisti, musicisti di lunga e salda fede comunista, obbedienti alla ragion di partito comunista mentre ci spiegano con un bell'impeto da facce di piperno che Stalin era cattivo, che l'Urss era l'ultimo impero coloniale da abbattere. Hanno trasformato, con gelida raffinatezza, in una ragione di vita la specialità a non vedere mai il mondo come è, ma a stravederlo sempre in funzione di una chiesa. Sosteneva un vecchio proverbio cinese: "Quando bevi acqua, ricordati della fonte". I comunisti italiani lo hanno forse dimenticato.
La vita è strana, il destino è incredibile, e segue delle traiettorie impensabili, dicono quando si parla della loro storia, piena di zone oscure. Ecco perché il libro di De Simone e Nardiello ha un grande merito: ci porta a ragionare in modo pragmatico, a vedere il comunismo come è. E soprattutto come è stato.
Fabio Ranucci
Il testo di Armando De Simone e Vincenzo Nardiello, "Appunti per un libro nero del comunismo italiano", ripercorre le vicende più oscure del Pci
Il comunismo? Per Saragat era la tragedia del proletariato. E tante altre sono state le definizioni in questi ultimi decenni. La politica di chi ha cercato di sfamare i popoli ed invece ha affamato il mondo sta subendo un processo storico che qualcuno vorrebbe nascondere o spazzare via.
Vi è stato un tempo in cui la politica, in Italia, ha avuto i caratteri dell'incubo. Quest'epoca di ferro non è durata poi molto, se si va a vedere. Dieci anni: fra il 1946 e il 1956; fra elezioni per la Costituente e i fatti d'Ungheria. Ma poco prima, dalle nostre parti, si erano consumate storie rosso sangue, stragi disumane, Portula, Schio. E, oltrecortina, il terrore dei gulag ha cambiato per sempre il volto dei paesi dell'Est. Qualcuno ha tentato, dopo il crollo del comunismo mondiale, con la democratizzazione e la decisione di liberarsi degli stereotipi del marxismo, di far luce su tutti quegli episodi che hanno sconvolto il mondo. Su crimini e misfatti stava calando definitivamente il sipario. Ma quando si comincia a fare i conti con la propria storia è molto difficile fermarsi a metà. E così, mentre nel mondo si continua a discutere chi fu in realtà Giuseppe Djiugasvili, detto Stalin, se quel magnifico georgiano di cui parlò Lenin o il tiranno sterminatore di contadini bollato come il grande criminale, un lucido stratega o un piccolo uomo precipitato nella vertigine della Storia, lo statista che seppe strappare la Russia alla sua condizione o la causa prima di tutti i mali che affliggono ancora oggi l'Est europeo, ho letto scrupolosamente, appassionatamente il testo dei giornalisti Armando De Simone e Vincenzo Nardiello che si intitola Appunti per un libro nero del comunismo italiano (Controcorrente, pagg. 317, lire 30.000). Uno squarcio che si riapre su un'epoca buia.
Per non dimenticare quelli che vengono considerati gli errori di Togliatti e di quanti altri come lui sono stati giovani comunisti stalinisti.
Già, nell'Unione Sovietica era stato costruito il migliore dei mondi possibili. Sull'Unità era impossibile leggere una critica piccola, piccolissima al Paese del socialismo. A Mosca tutto era perfetto. Eppure, si sapeva tutto, dei gulag e di quanto altro ha combinato Stalin. E quando ci si trovava di fronte alla linguistica di Stalin, i comunisti italiani parlavano con vaghezza di infallibilità. Nonostante il Ritorno dall'Urss di André Gide era stato scritto. Così come Buio a mezzogiorno di Koestler era stato anche tradotto, letto e discusso abbondantemente. Ma probabilmente non furono compresi. Poi, la svolta di quanti hanno riformulato il loro rapporto con il comunismo e con lo stalinismo e sono andati avanti per la loro strada, dentro o fuori il Pci, ed oggi non si danno pace. Tormentati da ombre e fantasmi.
Ripercorrere una parte della storia del Pci attraverso ricerche storiografiche e documenti e valutarne gli esiti è stata senz'altro una esperienza irripetibile per gli autori di questo saggio ricco di spunti critici. Pagine da leggere voracemente, dall'intervista allo storico Stéphane Courtois, già noto per aver dato alle stampe il Libro nero del comunismo, agli eccidi dopo il 25 aprile, la strage di Portula e le vicende di "Gemisto", ovvero Francesco Moranino, raccontate da Giorgio Bocca nella sua Storia dell'Italia partigiana che, "dopo aver trascorso, dal 1941 al 1943, tre anni in carcere a Civitavecchia insieme a comunisti 'storici' come Pesenti e Scoccimarro per una condanna a dodici anni, fu liberato, tornò in Piemonte, divenne partigiano e scelse il nomignolo di 'Gemisto'". E che divenne deputato, a ventisei anni, nel 1946, nell'assemblea costituente. "Un caso esemplare della storia comunista in questo Paese. Il Pci, per salvare un proprio deputato, nominato sottosegretario alla Guerra, che si era macchiato di svariati omicidi durante la guerra partigiana ai danni d'altri partigiani 'bianchi', e per il quale la Camera aveva autorizzato l'arresto, prima lo fece scappare in Cecoslovacchia, dove esercitò l'incarico di commissario politico del Pci, poi, al momento dell'elezione di Saragat a presidente della Repubblica, contrattò i propri voti con la concessione della grazia presidenziale al fuggiasco". Il caso Moranino è raccontato con dovizia di particolari proprio come la strage del '45 nella prigione di Schio, ove un gruppo di ex partigiani uccise 53 detenuti accusati di collaborazione con i fascisti. Un altro eccidio dimenticato.
O le gesta della Volante Rossa, quel gruppo che, "nell'immediato dopoguerra a Milano, eseguì decine di 'condanne a morte'". Oppure, in perfetto stile staliniano, il gulag all'italiana, la "Cartiera" di Mignagola di Carbonera, in provincia di Treviso, "una piccola 'Auschwitz'… un campo di sterminio per fascisti o presunti tali, contro i quali un gruppetto di partigiani comunisti si accanì con una ferocia e una crudeltà raccapricciante: processi farsa, torture da enciclopedia delle perversioni, violenze d'ogni tipo, assassini ispirati dal più degradato sadismo, forni crematori, corpi straziati, buttati nel fiume, sciolti nell'acido o arsi nei forni della cartiera". Nel libro è riportato il racconto del senatore Antonio Serena, autore de "I giorni di Caino", che parla di Villa Dal Vesco, la "Villa degli orrori", dove "tutti i documenti dei prigionieri erano preventivamente distrutti dal 'tribunale del Popolo'". "Ad un prigioniero poliomielitico, prima di essere abbattuto a fucilate, fu imposto di arrampicarsi su di un mucchio di carbone". Poi, il delitto di Malga Bala, la strage del Monte Manfrei, in Liguria, "Quando i comunisti ammazzavano i sacerdoti", la questione di Trieste negli anni '43-'45, I morti di via Medina, a Napoli, e la preparazione del colpo di Stato, che prevedeva "la costruzione di campi di concentramento regionali per gli oppositori".
Su quelle vittime, ancora oggi vi è un silenzio tombale, un oblio mortificante.
Nella seconda parte, c'è una accurata analisi di quella che fu definita la "Gladio Rossa", l'esercito clandestino del Pci, un apparato paramilitare. Poi, la persecuzione subita dai comunisti italiani in Unione Sovietica e "i benefici finanziari ottenuti dall'Urss grazie all'azione del Pci ai danni dell'Italia".
Nella quarta parte, il dossier Mitrokhin, storia di "spioni" del Bel Paese al soldo sovietico. I giornali, soprattutto quelli di opposizione al centrosinistra a guida Ds, ne hanno parlato a lungo. "Divulgato in Italia nel mese di settembre '99 come l''apertura degli archivi segreti del Kgb', il rapporto consta di una serie di schede trascritte dall'archivista Vassilij Mitrokhin, definito dagli agenti inglesi come 'ex agente del Kgb attendibile ma parzialmente informato'". Seicentoquarantacinque pagine ricavate dagli appunti dell'ex funzionario della Lubianka con tutte le spie italiane nella rete rossa del Kgb, nomi e date della storia del nostro Paese dal dopoguerra al 1984. Sino alla sesta parte del libro, tra interviste ed interventi sull'argomento che il tempo, incredibilmente, sembra aver cancellato. E' terribile infatti pensare che queste storie lontane oggi non interessano nessuno. E il motivo è da ricercare anche nel comportamento dei funzionari del Pci alla fine degli anni Ottanta.
Nell'89, a 68 anni dalla scissione di Livorno, il partito fondato nel 1921 da Gramsci e Bordiga, la forza politica che di lì a poco si chiamerà Pds, voleva chiudere al più presto possibile le polemiche sul comunismo, reale o nuovo, e sancire, con l'adesione all'Internazionale socialista, la sua collocazione nella sinistra democratica e riformista. Tuttavia, grazie anche a testi come "Appunti per un libro nero del comunismo italiano", il sangue della storia non è asciugato in fretta e, citando Goethe, è facile dire che l'altezza della quercia si misura quando è caduta. Da una parte quindi c'è stato il continuismo minoritario di quanti non se la sentono di riconoscere il fallimento storico del comunismo ed hanno coltivato l'illusione di salvare il salvabile temendo al tempo stesso che il Pci, rinunciando alla specificità che storicamente ha contraddistinto i comunisti dalle altre forze di sinistra, era destinato a perdere la propria ragion d'essere. Dall'altra invece c'è stato un continuismo di segno opposto, che ha trovato largo credito nel nuovo gruppo dirigente, secondo cui il partito di Gramsci e di Togliatti sarebbe stato fin dall'inizio sostanzialmente diverso dai suoi confratelli e pertanto, attestandosi successivamente su posizioni socialiste e riformiste non avrebbe fatto altro che sviluppare la sua vocazione originaria. L'ondata di piena che ha travolto argini che sembravano indistruttibili non poteva essere ignorata dal Pci. Achille Occhetto, di fronte alla catastrofe, al crollo del comunismo sovietico e del suo simbolo, il Muro di Berlino, annunciò nuove proposte e nuovi progetti. Il Pci cambiò nome, lasciando però invariata la sostanza del suo modo di essere. Il vecchio nome rappresentava la memoria di sé, una memoria che non poteva essere cancellata. Come i crimini dopo il 25 aprile. Ma l'essere comunisti allora, in quegli angosciosi e lunghissimi anni, era cosa incomparabilmente diversa dall'essere comunisti oggi, o dall'esserlo stati ieri, ai tempi di Cuba e del Vietnam. L'essere comunisti allora significava credere in modo assoluto nella innegabile grandezza di Stalin e nella intelligenza infallibile di Togliatti, che adesso qualcuno vorrebbe dimenticare, magari rifacendosi al tavolo da gioco. Ora i compagni che sino a ieri l'altro alloggiavano in via delle Botteghe oscure passano le giornate ad odiare il loro passato, pensando a cose simmetricamente opposte a quelle che hanno pensato allora. Con la stessa fermezza di un tempo. E sono tutti in prima fila, tutti in cattedra di anticomunismo. Niente da stupirsi, di fronte a questo exploit del trasformismo italico. Ci hanno ripensato, ed ora citano Torquato Tasso: "Ché nel mondo mutabile e leggero, costanza è spesso il variar pensiero". Li ritroviamo tutti nei posti di comando, nei giornali e nelle televisioni, storici, filosofi, giornalisti, musicisti di lunga e salda fede comunista, obbedienti alla ragion di partito comunista mentre ci spiegano con un bell'impeto da facce di piperno che Stalin era cattivo, che l'Urss era l'ultimo impero coloniale da abbattere. Hanno trasformato, con gelida raffinatezza, in una ragione di vita la specialità a non vedere mai il mondo come è, ma a stravederlo sempre in funzione di una chiesa. Sosteneva un vecchio proverbio cinese: "Quando bevi acqua, ricordati della fonte". I comunisti italiani lo hanno forse dimenticato.
La vita è strana, il destino è incredibile, e segue delle traiettorie impensabili, dicono quando si parla della loro storia, piena di zone oscure. Ecco perché il libro di De Simone e Nardiello ha un grande merito: ci porta a ragionare in modo pragmatico, a vedere il comunismo come è. E soprattutto come è stato.
Fabio Ranucci
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Così il Pci scatenò il terrore per impadronirsi del Paese
In "Bella ciao" Giampaolo Pansa racconta la strategia delle Brigate Garibaldi per sterminare i fascisti. E non solo.
Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto da Bella Ciao. Controstoria della Resistenza (Rizzoli, pagg. 430, euro 19,90; in libreria dal 12 febbraio) di Giampaolo Pansa. Nel saggio Pansa ricostruisce con dovizia di particolari il ruolo del PCI all'interno della guerra civile che ha insanguinato l'Italia dall'8 settembre del '43 sino al 25 aprile del '45 (anche se in molti casi le violenze si sono trascinate ben oltre).
Il giornalista documenta come i comunisti si battessero per obiettivi ben diversi da quelli di chi lottava per la democrazia. La guerra contro tedeschi e fascisti era soltanto il primo tempo di una rivoluzione destinata a fondare una dittatura filosovietica. Pansa racconta come i capi delle brigate Garibaldi abbiano tentato di realizzare questo disegno autoritario. Ricostruisce il cammino delle bande guidate da Luigi Longo e da Pietro Secchia sino dall'agosto 1943. Poi le prime azioni terroristiche dei Gap, l'omicidio di capi partigiani ostili al Pci, il cinismo nel provocare le rappresaglie nemiche, ritenute il passaggio obbligato per allargare l'incendio della guerra civile.
A distanza di tanti decenni colpisce sempre la strategia messa in atto dai militanti del Pci. In molti luoghi dell'Italia del Nord e del Centro, senza strutture apposite, comandi riconosciuti, progetti elaborati, basi predisposte. All'inizio tutto avvenne per iniziativa di singoli militanti, a volte sconosciuti anche ai dirigenti comunisti periferici. Fu così che si mise in moto un'offensiva fondata su uno schema semplice e terribile. Lo schema può essere riassunto nel modo seguente. Un attentato, una rappresaglia nemica. Un nuovo attentato, una nuova rappresaglia più dura. Un terzo attentato, una terza rappresaglia ancora più aspra. E così via, con una catena senza fine che aveva un solo risultato: allargare l'incendio della guerra civile e spingere alla lotta pure chi ne voleva restare lontano. Scriverà Giorgio Bocca: «Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell'occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Cerca la punizione per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell'odio».
Ecco qual era la strategia dei Gruppi di azione patriottica, i Gap. Fondati verso la fine del 1943 per iniziativa del Comando generale della Brigate Garibaldi, ossia di Longo e di Secchia. Uno degli spagnoli, Francesco Scotti, poi raccontò: «Qualche compagno sosteneva che non era giusto scatenare il terrore individuale, perché questo era contrario ai principi marxisti leninisti. Anche in Francia avevo ascoltato critiche di questo genere».
Aderire alla strategia dei Gap, anche soltanto sul terreno del consenso politico, era difficile per molti iscritti al Pci clandestino. Gente semplice e coraggiosa che rischiava l'arresto perché aveva in tasca una tessera o partecipava a una raccolta di denaro per i primi nuclei ribelli. Ma trovare dei compagni disposti a sparare alla schiena di un avversario, e a sangue freddo, risultava un'impresa davvero ardua.
[...]
Il vertice delle Garibaldi non perdeva tempo a strologare su queste esitazioni. Voleva vedere subito dei morti nelle strade. Secchia incitava ad agire «contro le cose e le persone» dei fascisti. Le azioni non venivano quasi mai rivendicate. E questo accentuava la paura seminata dalle molte uccisioni.
Pochi si rendevano conto che i Gap erano piccoli nuclei armati, composti soltanto da militanti comunisti, clandestini nella clandestinità, capaci di vivere nell'isolamento più totale. Una solitudine in grado di mettere a dura prova la resistenza nervosa anche del più freddo terrorista.
In realtà i gappisti veri e propri, quelli professionali e in servizio permanente, erano una frazione davvero minuscola rispetto ai tanti comunisti che iniziarono a sparare quasi subito contro i fascisti.
Gli omicidi di dirigenti del nuovo Partito fascista repubblicano, di solito segretari federali, vennero preparati e compiuti da terroristi dei Gap. Ma gli altri delitti, ben più numerosi, furono il risultato di iniziative decise da singoli militanti, decine e decine di volontari, senza nessun rapporto con il vertice delle Garibaldi. Erano pronti a sparare e a uccidere, sulla base di una tacita parola d'ordine diffusa da nessuno.
Ecco qualche esempio di queste azioni, di solito destinate a non entrare nella storia della guerra civile. Il 5 novembre 1943, a Imola, venne ucciso il seniore della Milizia Fernando Barani. Il 6 novembre, a Medicina, sempre in provincia di Bologna, furono accoppati quattro fascisti. Il 7 novembre, a San Godenzo (Firenze) altri quattro fascisti caddero sotto le rivoltellate di sconosciuti.In seguito Giorgio Pisanò scrisse che questo attentato era stato compiuto da un gruppo guidato dal meccanico Alessandro Sinigaglia, poi capo dei Gap fiorentini. Anche lui uno spagnolo reduce da Ventotene, perse la vita nel febbraio 1944 in una sparatoria.
Nel Reggiano, dopo la fine del Tirelli, si cercò di accoppare il commissario della nuova federazione fascista, l'avvocato Giuseppe Scolari. Era l'imbrunire del 13 novembre e l'attentato fallì. Andò a segno il terzo colpo, messo in atto il 17 dicembre. L'obiettivo era Giovanni Fagiani, cinquantenne, seniore della Milizia e già comandante della 79ª Legione. Abitava nel comune di Cavriago e stava ritornando a casa in bicicletta. Era in compagnia della figlia Vera, 19 anni, che pedalava accanto a lui. In località Prati Vecchi, il seniore venne affrontato da due ciclisti, in apparenza contadini avvolti nel tabarro per difendersi dall'umidità invernale. Gli spararono e lo uccisero. Mentre Vera si gettava sul padre, tirarono anche su di lei e la colpirono al volto. La ragazza sopravvisse, ma rimase cieca.
A Genova il gruppo di Buranello, ormai divenuto il Gap della capitale ligure, il 27 novembre 1943 cercò di intervenire in appoggio agli operai meccanici e ai tranvieri scesi in sciopero. L'agitazione era stata indetta dal Pci per adeguare il salario al carovita e ottenere l'aumento della quantità di alcuni generi alimentari tesserati. Ma l'aiuto si limitò a un paio di attentati contro i tralicci dell'alta tensione. Più pesante fu l'intervento in occasione del nuovo sciopero deciso tra il 16 e il 20 dicembre. Due fascisti vennero uccisi, forse dai Gap o da altri. Per reazione, le autorità repubblicane fucilarono due operai già in carcere perché trovati in possesso di armi mentre tentavano di sabotare dei tram. La rappresaglia, resa pubblica il 20 dicembre, fece terminare subito l'agitazione.
Tratto da Il Giornale 07/02/2014
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