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Schio (VI), 6 - 7 luglio 1945 la strage delle carceri. I partigiani della brigata garibaldina massacrano 54 civili.

Un reparto di partigiani della brigata garibaldina, comandati da “Romero” e “Teppa” (pseudonimi), irruppe nella notte del 6 Luglio nel carcere mandamentale della città; non disponevano di elenchi di fascisti, quindi li cercarono, e, non avendoli trovati, le vittime furono scelte tra i 99 detenuti del carcere.
Tra questi, solo 8 erano stati indicati al momento dell’arresto come detenuti comuni, mentre 91 erano stati incarcerati come “politici” di possibile parte fascista, sebbene non tutti fossero ugualmente compromessi con il fascismo e in molti casi forse fossero stati arrestati per errore.
Erano in corso gli accertamenti delle posizioni individuali. Per alcuni era già stata accertata l’estraneità alle accuse ed era già stata decisa la scarcerazione, non avvenuta per lentezze burocratiche.
Gli 8 detenuti comuni vennero subito esclusi dalla lista, insieme a 2 detenute politiche non riconosciute come tali. Al processo del 1952 si accertò che solo 27 su 91 avevano una connotazione fascista.
Dopo una approssimativa cernita, che suscitò contrasti tra gli stessi fucilatori, alcuni proposero che fossero risparmiate almeno le donne, che in genere non erano state arrestate per responsabilità personale ma solo fermate per legami personali con fascisti o per indurle a testimoniare nell’inchiesta in corso. “Teppa” si oppose dicendo “Gli ordini sono ordini e vanno eseguiti“, non disse da chi provenivano gli ordini, e non fu mai accertato, nonostante un processo apposito nel 1956.
Dopo un’ora di incertezza, mentre alcuni partigiani non convinti si allontanarono, vennero uccise a colpi di mitraglia 54 persone, tra cui 14 donne (la più giovane di 16 anni), e ne vennero ferite numerose altre. Alcuni, coperti dai corpi dei caduti, si salvarono indenni. I soccorritori quando giunsero trovarono il sangue che colava sulla scala, sul cortile e arrivava fino sulla strada.

L’evento ebbe grande risonanza non solo nazionale, ma internazionale, tendendo a dimostrare il pericolo costituito dal persistere di formazioni nominalmente dipendenti dal C.L.N., ma di fatto dipendenti da altri poteri occulti.
Su pressione della autorità di occupazione angloamericane venne aperta una inchiesta da cui risultò che, tra le persone colpite, 27 erano componenti del partito fascista, senza che fossero dimostrate prove di crimini, altri potevano forse essere correlati (mogli, fidanzate, conoscenti…) con fascisti che erano lì rinchiusi.
Tra loro vi era anche chi non era mai stato fascista. Una donna era solo la padrona di casa di un partigiano moroso dell’affitto, che sollecitato a pagare l’affitto l’aveva fatta incarcerare.
Tuttavia, l’azione degli ex-partigiani riscosse un certo sostegno nel paese in quanto molti temevano, dopo il discorso di Chambers, che senza l’esecuzione sommaria quelli tra loro che avessero avuto responsabilità fasciste avrebbero facilmente guadagnato l’impunità.
«Si può dire che la causa antifascista era più giusta perché si opponeva a un regime fascista che si era affermato con la violenza, l’oppressione e la soppressione dei diritti dell’individuo [...] Ma l’episodio di Schio è avvenuto al di fuori del periodo di guerra, quando uccidere era diventato inaccettabile. Questo era un atto fuori legge e fuori dalle regole, portato a termine dai partigiani in aperta sfida anche ai loro stessi superiori.»
(Sarah Morgan Rappresaglie dopo la Resistenza, L’eccidio di Schio tra guerra civile e guerra fredda)
Resta da notare, peraltro, che all’indomani dell’evento le organizzazioni partigiane, la Camera del Lavoro e il Partito Comunista Italiano, condannarono l’accaduto in quanto la guerra era già finita da nove settimane e si sarebbe dovuto attendere l’inchiesta sulle responsabilità individuali delle persone arrestate.
I tre processi

Il governo militare alleato affidò le indagini agli investigatori John Valentino e Therton Snyder. In due mesi di indagini questi identificarono quindici dei presunti autori della strage, otto di questi ripararono in Jugoslavia prima dell’arresto, sette vennero arrestati. Il processo istituito dalle autorità militari alleate si svolse nell’autunno del 1945. La Corte militare alleata, presieduta dal colonnello americano Beherens, assolse due degli imputati presenti e condannò gli altri cinque, tre di essi furono condannati a morte, due furono condannati all’ergastolo, altri tre imputati furono condannati in contumacia a ventiquattro e a dodici anni di reclusione (le condanne a morte verranno commutate nel carcere a vita dal capo del governo militare alleato, il contrammiraglio Ellery Stone).
Furono emesse queste condanne:
Valentino Bortoloso, condannato a morte.
Renzo Franceschini, condannato a morte.
Antonio Fochesato, condannato a morte.
Gaetano Canova, condannato all,’ergastolo.
Aldo Santacaterina, condannato all’ergastolo.
La pena effettivamente scontata dai cinque condannati presenti al processo fu tra i 10 e i 12 anni.

Altri autori dell’eccidio furono individuati successivamente e fu istruito un secondo processo, condotto da una corte italiana. Il secondo processo si tenne a Milano, la sentenza fu emessa dalla Corte d’Assise di Milano, il 13 novembre del 1952, con otto condanne all’ergastolo.
Tuttavia uno solo sarà presente, gli altri sette erano fuggiti nei paesi dell’est dove trovarono protezione (come molti altri criminali autori di stragi):
Ruggero Maltauro, restituito dalla Yugoslavia dopo la rottura con il Comintern, condannato all’ergastolo, ma non sconterà tutta la pena.

Nel 1956, undici anni dopo l’Eccidio, si tenne a Vicenza un terzo processo. Erano da accertare due fatti, le eventuali responabilità del ritardo a dare esecuzione all’ordine di scarcerazione di una parte dei detenuti, emesso a Vicenza e trasmesso per competenza a Schio, ma non eseguito, e l’individuazione della catena gerarchica da cui era partito l’ordine di eseguire la strage.
Si trattava di individuare eventuali responsabilità nel ritardo dell’esecuzione dell’ordine di scarcerazione, ritard costato la vita a varie persone, e individuare i mandanti della strage, indicati dal Maltauro, alla corte d’Assise di Vicenza.
Erano imputati Pietro Bolognesi, segretario comunale e Gastone Sterchele, ex vicecomandante della Martiri della Val Leogra.
Sterchele fu assolto con formula piena, Bolognesi per insufficienza di prove; in appello fu anch’egli assolto per non aver commesso il fatto.
L’identità dei mandanti della strage risulta tuttora ignota. L’eccidio di Schio rimane uno dei misteri d’Italia.

L’Unità aveva definito i responsabili dell’eccidio “provocatori trotskisti“.
In realtà i partigiani che avevano condotto l’Eccidio al carcere di Schio erano legati al Partito Comunista e alle ex-Brigate Garibaldi e alla organizzazione che dopo la fine della guerra succedette alle Brigate Garibaldi.
Tre di loro, sfuggiti alle indagini, si recarono a Roma al Ministero di Grazia e Giustizia per conferire con Palmiro Togliatti, Ministro di Grazia e Giustizia, dal quale dipendeva il carcere di Schio, che inoltre era nello stesso tempo segretario del Partito Comunista Italiano.
Li ricevette in via Arenula, allora sede del Ministero, il segretario del Ministro, Massimo Caprara. Il Ministro della Giustizia incaricò la Direzione del partito di provvedere e su richiesta della direzione del partito i tre partigiani, coautori dell’Eccidio, vennero aiutati dall’organizzazione del PCI a rifugiarsi a Praga.
Durante una visita a Praga di Palmiro Togliatti e Massimo Caprara essi ebbero un incontro casuale e ringraziarono per averli aiutati.
Di questo episodio Caprara, che materialmente accolse e trattò con gli omicidi per conto del Ministro Togliatti, fece una dettagliata descrizione in un suo famoso libro.

Nel 1946 il Ministro Palmiro Togliatti fece approvare una amnistia a favore dei crimini di guerra commessi da entrambe le parti in causa e ne beneficiarono anche gli autori dell’eccidio.

 L’Eccidio di Schio ha tutti gli elementi per essere considerato “Una Strage di Stato“:

• Le vittime erano incarcerate e nella potestà dello Stato.

• Gli autori della strage erano persone inquadrate militarmente, i partigiani infatti erano stati riconosciuti come corpo combattente, e la “polizia ausiliaria” vieppiù era un organo dello stato.

• Gli autori della strage godettero dell’appoggio e della complicità del Ministero di Grazia e Giustizia che provvide a proteggerli e farli espatriare.

• Le pubbliche autorità per lunghi anni trattarono con fastidio i superstiti e i famigliari delle vittime, che a tutti gli effetti erano vittime dell’autorità e perciò imbarazzavano l’autorità stessa.

Ed un pò essi imbarazzano ancora e si cerca di impedire l’accertamento preciso dei fatti.

MORTI SUL POSTO :
Teresa Amadio, anni 41, operaia tessile. Teresa Arcaro, anni 45, operaia tessile. Dr. Michele Arlotta,anni 62, Primario dell’ospedale di Schio. Irma Baldi, anni 20, casalinga. Quinta Bernardi, anni 28, operaia tessile. Umberto Bettini, anni 40, impiegato. Giuseppe Bicci, anni 20, impiegato. Ettore Calvi, anni 45, tipografo. Livio Ceccato, anni 37, impiegato. Maria Dal Collo, anni 56, casalinga. Irma Dal Cucco, anni 19, casalinga. Anna Dal Dosso, anni 19, operaia. Antonio Dal Santo, anni 47, operaio. Francesco De Lai, o Dellai Francesco, anni 42, operaio tessile. Settimio Fadin, anni 49, commerciante. Mario Faggion, anni 27, autista. Severino Fasson, anni 20, calzolaio. Fernanda Franchini, anni 39, casalinga. Silvio Govoni, anni 55, im piegato.
Angela Irma Lovise, anni 44, casalinga.
Blandina Lovise, anni 33, impiegata.
Lidia Magnabosco, anni 18, casalinga.
Roberto Mantovani, anni 44, segretario comunale.
Isidoro Dorino Marchioro, anni 35, commerciante.
Alfredo Menegardi, anni .., capostazione.
Egidio Miazzon, anni 44, impiegato
Giambattista Mignani, anni .. , capitano di fanteria.
Luigi Nardello, anni 35, cuoco.
Giovanna Pangrazio, anni 31, impiegata.
Alfredo Perazzolo, anni 29, meccanico.
Vito Ponzo, anni 58, commerciante.
Giuseppe Pozzolo, anni 46, impiegato.
Giselda Rinacchia, anni 25, operaia.
Ruggero Rizzoli, anni 51, maggiore.
Antonio Sella, anni 60, farmacista.
Antonio Slivar, anni 65, pensionato.
Luigi Spinato, anni 36, portiere.
Giuseppe Stefani, anni 63, impresario.
Elisa Stella, anni 68, casalinga.
Carlo Tadiello, anni 22, studente, ufficiale GNR.
Sante Tommasi, ani 53, impiegato.
Luigi Tonti, anni 48, commerciante.
Francesco Trentin, anni 53, invalido, operaio tessile.
Ultimo Ziliotto, anni 38, impiegato.
Oddone Zinzolini, anni 40, rappresentante.
[modifica]Deceduti nei giorni successivi per le ferite riportate
Giovanni Baù, anni 24, commerciante.
Settima Bernardi, anni 21, operaia.
Arturo De Munari, anni 43, tessitore.
Giuseppe Fistarol, anni 47, maggiore genio.
Mario Plebani, anni 49, commerciante.
Carlo Sandonà, anni oltre 70, pensionato ex-barbiere
Dr.Giulio Vescovi (ex commissario prefettizio fascista).
SOPPRAVISSUTI :
17 sono stati feriti ma non uccisi:
Luigi Bigon, anni 42, rappresentante.
Antonio Borghesan, anni 19, elettricista.
Giuseppe Cortiana,
Maria Dall’Alba, anni 23, casalinga.
Anselmo Dal Zotto,
Guido Facchini,
Giuseppe Faggion,
Mario Fantini,
Anna Maria Franco di anni 16,
Emilia Gavasso, anni 49.
Carlo Gentilini, anni 38, ingegnere.
Emilio Ghezzo,
Olga Pavesi, anni 42, casalinga.
Calcedonio Pillitteri,
Arturo Perin,
Rino Tadiello,
Rosa Tisato.
13 restarono illesi:
Giovanni Alcaro,
Bruno Busato,
Pietro Calgaro,
Diego Capozzo (ex vicecommissario prefettizio fascista),
Augusto Cecchin,
Alessandro Federle,
Vittorio Federle,
Agostino Micheletto,
Umberto Perazzolo,
Caterina Sartori,
Ferrj Slivar,
Alfredo Tommasi,
Basilio Trombetta.


Adone Lovise, anni 40, impiegato.
Leonetto Rossi, anni 20, studente, milite della stradale.


Una pagina di storia dimenticata. Luglio 1945: partigiani comunisti massacrano 54 persone nel carcere di Schio. A guerra già terminata. Togliatti contrariato, ma aiuta alcuni tra gli autori del massacro lasciandoli espatriare. 


"Disgraziati", sibilò Togliatti, Ministro della Giustizia del Gabinetto presieduto da Ferruccio Parri, con tono tra il disprezzo e la commiserazione. Fra una tarda mattinata del luglio avanzato del 1945. "Venire proprio lì, dove si amministra la cosiddetta giustizia dello Stato borghese", commentò il Ministro che era anche Segretario del Partito comunista. Gli avevo appena riferito della visita che avevo ricevuto nel mio ufficio del Ministero a via Arenula. "Siamo quelli di Schio", mi avevano detto quasi all'unisono tre visitatori, con il calcio malcelato di una [CENSORED] alla cintola.

"Fammi venire subito Bolle e Gallo", continuò Togliatti citando i due vice segretari Secchia e Longo con il loro nome cospirativo. Con loro, la riunione durò non più di dieci minuti. Li vidì uscire assieme tranquilli, senz'ombra di contrarietà. Togliatti mi passò uno dei soliti piccoli fogli sui quali veniva raccolto il verbale delle riunioni ordinarie della segreteria del Pci. Lo aveva compilato lui stesso con una specie abituale di ordine maniacale.

"Schio", c'era scritto a sinistra, poi in colonna a destra due altre righe: "Trasferire in luogo sicuro". Colpevolmente non obiettai nulla, in preda alla mia isolata precipitazione. "Parlane subito con Matteo", concluse Togliatti con la calma riservata ad una pratica di ordinaria banalità. Matteo, fratello di Pietro Secchia, era incaricato di tenere i rapporti con due funzionari dell'NKVD, la polizia sovietica, che figuravano tra i diplomatici di rango dell'ambasciata dell'Urss, di via Gaeta a Roma. "Boia faus, porco boia, ma sti chi, i ien una brigata, stanno diventando un esercito. Ogni giorno arriva qualcuno che deve partire in fretta", ripete Matteo con una sorta di curiosità distaccata, espressa in piemontese. Tornai al ministero, infilandomi a perdifiato da via delle Botteghe Oscure nel viale che sboccava sul Ponte Garibaldi. Vi trovai, in attesa nel mio uffticio, i tre di Schio e dissi ansimando:

"La Segreteria ha deciso: Praga".

Li vidi qualche anno dopo. Uscivo con Togliatti e la Jotti dalla Tynsky chram, la chiesa di Tyn in Stare Mesto, la Città Vecchia della capitale cecoslovacca. Uno di loro mi venne incontro. "Ti ricordi di me? Sono dì Schio", disse guardando anche Togliatti. Il partigiano cavò di tasca e mostrò la tessera del partito comunista italiano del 1947, con i bollini mensili tutti regolarmente applicati. Fra quella di un normale iscritto al Pci, in trasferta coatta all'estero. Aveva sparato, colpito, veniva ricercato, ma era stato assolto dal Partito e dal Partito aveva ottenuto una copertura "logistica". Si rivolse di nuovo a Togliatti e gli disse: "Torneremo presto in Italia, dopo la vittoria alle elezioni".

Togliatti girò lo sguardo altrove, ormai disinteressato, come dinanzi ad un innocuo ma fastidioso fantasma.

Il fantasma aveva fatto materialmente parte di una ventina di uomini che s'erano riuniti, la notte del 6 luglio 1945, a Schio, una cittadina in collina, venticinque chilometri a nord dì Vicenza, in un parco, la Valletta dei Frati', appena fuori dal centro. Erano ex partigiani dei battaglioni "Ramina Bedin", "Ismene", della divisione garibaldina "Ateo Garemi" e della Polizia ausiliaria, istituita alla fine della guerra,' in maggioranza comunista. Avevano come nome di battaglia "Teppa", "Morvan", "Gandhi",, "Quirino', "Terribile", "Guastatore" e altri ancora, che riconoscevano, assieme, la supremazia del comandante Igino Piva, detto "Romero". Ad un segnale, convenuto, un colpo di fischietto, con la parte inferiore del viso coperta da grandi fazzoletti, fecero irruzione nel carcere locale, immobilizzarono i guardiani, Pezzin e Girardin, e spararono, al pianoterra e al secondo piano, mitragliando i prigionieri a distanza ravvicinata. Uccisero 47 persone e ne ferirono 24, mentre altre 7 morirono in seguito in ospedale. In totale 54, di cui 14 donne. Nessuno di loro era allo stato legalmente incriminato, ma solo sospettato di essere iscritto al Partito fascista repubblicano, anche per banali incarichi amministrativi. Il 9 luglio giunse a Schio il generale americano Dunlop, comandante dell'AMG per il Veneto, accompagnato da altri ufficiali. Il generale, al termine di una formale inchiesta, parlò chiaramente di "violenza rossa premeditata", come la Corte di Assise di Milano confermò il 13 novembre 1952, identificando tutti i partigiani responsabili. "L'Unità" aveva parlato di gruppi incontrollati, poi li aveva definiti ingiustificatamente trotzskisti, quindi nemici del Partito comunista italiano. Ma la stampa di partito aveva in precedenza inveito anche contro i simpatizzanti locali del passato regime: "Sterminiamoli, arrestiamoli, fuciliamoli". Nel voluminoso libro di un eminente storico di sinistra, Claudio Pavone, sulla Resistenza, pubblicato dieci anni fa, dei fatti di Schio non si trova menzione. L'amnistia del Guardasigilli Togliatti del 1946 alla fine salvò i responsabili del più vasto eccidio perpetrato durante il prolungato periodo della "resa dei conti" dopo la cessazione della guerra: un fiume complessivo dì sangue di oltre 15 mila vittime della politica della violenza e del rancore di classe.
di Massimo Caprara



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