All’alba, Goli Otok è pallida. Grigia. Un’isola anonima contro cui s’infrangono le onde oleose del Quarnaro. Guardandola dalla terra ferma non si vede alcun tipo di vegetazione; non si scorgono né alberi né arbusti. Dall’acqua emerge solo una distesa di roccia livida e sterile. D’estate il sole secca ogni cosa, d’inverno il vento ghiaccia ciò che rimane. Nell’eterno rincorrersi tra vita e morte è sempre quest’ultima a vincere a Goli Otok. Guardandola, gli uomini hanno cominciato a chiamarla in molti modi: qualcuno l’ha definita “calva”, qualcun altro “nuda”. Ma l’aggettivo più adatto, forse, è “segreta”. Il dorso dell’isola, una scogliera alta oltre duecento metri, non permette di vedere nulla di ciò che accade lì. È come un mantello che tutto nasconde e porta via. Goli Otok è una prigione naturale perfetta, tanto che Josip Broz Tito la scelse come luogo dove isolare coloro che, dopo lo strappo tra Jugoslavia e Unione sovietica, erano rimasti fedeli a Joseph Stalin. Fu così che, a partire dal 1949, Goli Otok divenne un campo di rieducazione attraverso il quale riportare i dissidenti nell’ortodossia del comunismo jugoslavo. Coloro che finivano nel mirino della polizia segreta titina, la terribile Udb-a, venivano caricati su una nave chiamata “Punat” e, infine, lasciati sul lato occidentale dell’isola.
I primi quaranta passi erano i più lunghi. Non appena si sbarcava, si finiva sotto il cosiddetto “kroz stroj“, un tunnel umano in cui si veniva pestati a sangue dagli altri detenuti e poi, malconci, si veniva abbandonati a se stessi. Quella folla urlante – fatta di uomini che furono allo stesso tempo vittime e carnefici di se stessi (il campo era infatti in autogestione) – non c’è più. Al suo posto c’è una croce alta e nera che contrasta terribilmente con il trenino rosso e giallo che i turisti utilizzano per fare il tour dell’isola e con il ristorante chiamato, con terribile ironia, “Przun” (prigione).
Le strade, a Goli, sono tre, ma tutto ruota attorno a quella centrale, dove erano presenti i tanti laboratori in cui lavoravano gli internati: da quello del legno a quello del marmo, passando per quello del ferro. Era qui che i detenuti si consumavano maggiormente. I macchinari, infatti, funzionavano solamente grazie alla forza umana, come ricorda il sopravvissuto Gino Kmet: “I rudimentali macchinari venivano azionati dalla forza motrice umana, ingaggiando quattro persone, per lo più boicottati speciali, di quelli più duri che non avevano raccontato la verità come intendevano loro. Questi, per mezzo di una grossa manovella e apposite pulegge, mettevano in movimento il tornio, il trapano e la mola smerigliatrice” (Luciano Giuricin, La memoria di Goli Otok – Isola calva).
Quei macchinari oggi sono completamente arrugginiti, consumati dal tempo e dalle intemperie. Il campo è in totale abbandono e si può solo immaginare come vivevano gli oltre 30mila internati che furono spediti sull’isola dal 1949 al 1956.
Fotografie: Ivo Saglietti - Testo: Matteo Carnieletto
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