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Dina Bertoni, trucidata dai partigiani a Ceto in Valcamonica.

 


Fu seviziata, violentata e poi finita con una baionetta Il corpo della 25enne fu restituito solo dopo 55 giorni «L'accusarono di essere una spia, ma erano calunnie»
C'è una atroce, oscura e scomoda pagina della Liberazione camuna che nessuno storico ha mai sfogliato. La sorella della vittima, però, non si è mai arresa e, attraverso la memoria, continua a mantenerne vividi i tragici e inquietanti colori.
Esattamente settant'anni fa, Dina Bertoni, 25enne di Ceto, veniva rapita con l'inganno da un gruppo di partigiani. Sospettata di essere una spia, fu portata sulle montagne, violentata e seviziata per giorni prima di essere giustiziata con una baionetta conficcatale nel cranio.
I familiari non avrebbero avuto neppure una tomba su cui piangerla se il parroco di Cividate, don Carlo Comensoli, il prete dei partigiani, non avesse supplicato i suoi aguzzini di restituire il cadavere. Il corpo della ragazza fu fatto ritrovare nel cimitero di Berzo Inferiore il 27 maggio 1945. All'epoca l'assassinio fu archiviato frettolosamente dalle autorità di una democrazia ancora fragile.
Il tempo ha fatto calare il silenzio sull'episodio fino a sei anni fa, quando la sorella di Dina ha rispolverato il «cold case», nel senso che i sospettati dell'omicidio non sono mai comparsi davanti a un tribunale.
«LA GIUSTIZIA non è solo questione di espiazione ma anche di verità - osserva Giacomina Bertoni, la sorella di Dina -: i responsabili di quelle atrocità sono morti, ma vorrei che qualcuno facesse finalmente chiarezza sull'episodio riscattando la memoria di Dina: era una povera ragazza, non una spia, non meritava di essere uccisa due volte dalle menzogne».
Nonostante i 92 anni, Giacomina ricorda con lucidità ogni dettaglio di quel maledetto giorno. «Dina si trovava in una abitazione vicina per assistere un parente ammalato e tre individui mi costrinsero ad accompagnarli lì: esitai intu- endo il pericolo, ma intimidita fui obbligata a seguirli e, pur non indicando loro la casa, riuscirono egualmente a raggiungerla. Uno dei tre chiamò mia sorella invitandola ad andare con loro perchè il maggiore Ferruccio Spadini, comandante del presidio di Breno della Guardia nazionale repubblicana, voleva parlarle. Dina si affacciò alla finestra e rispose che non lo conosceva, ma dietro insistenza e minacce scese con un'amica che era con lei».
GIACOMINA BERTONI continua: «Il primo individuo allertò gli altri due, che afferrarono mia sorella e spinsero via l'amica. Sentivo le sue urla, attutite dai colpi di arma da fuoco esplosi dai presunti partigiani, mentre la portavano verso la montagna. A terra trovai le forcine che usava per raccogliere i capelli. Io e mio padre Paolo vegliammo tutta la notte, e nei giorni successivi lui stesso la cercò a lungo inutilmente nelle baite, in montagna, percorrendo tutta la campagna di Ceto. Ormai rassegnati al peggio, ci venne incontro la mamma del senatore Giacomo Mazzoli, allora comandante partigiano, che consigliò a mio padre di rivolgersi a don Carlo Comensoli. Il sacerdote prese a cuore la nostra vicenda e scrisse la denuncia contro gli assassini di Dina, che mio padre trasmise al tribunale (la successiva amnistia finì poi con il cancellare crimini e criminali, ndr) e nel contempo incontrammo, purtroppo senza alcun esito, a Breno, al comando delle Fiamme verdi, i capi partigiani Romolo Ragnoli e Lionello Levi Sandri. Un mese dopo ci fu comunicato che mia sorella era stata "sentenziata" e che trovandosi in zona di rastrellamento, in località Cerreto di Breno, non sarebbe stato possibile andare a prelevarla...».
Il 26 maggio, 54 giorni dopo la scomparsa, Paolo Bertoni fu avvertito che la salma della figlia era stata trasportata al cimitero di Berzo Inferiore e che il comando delle Fiamme verdi avrebbe messo a disposizione della famiglia un camion per il trasferimento del corpo a Ceto. «La mattina del 27 maggio, era domenica - ricorda Giacomina Bertoni -, con mio marito Alessandro, mio padre e uno zio raggiungemmo il camposanto e riconoscemmo mia sorella, il cui corpo, chiuso in un sacco, era stato ricomposto in una cassa. Dina aveva la testa annerita, era stata rasata, sulla parte sinistra del cranio era visibilissima una profonda cicatrice procurata da una stilettata. Inoltre, presentava evidenti segni di gravi oltraggi. Nella bara notammo la presenza di una corda. Non abbiamo potuto conoscere la data del decesso, né ci sono stati consegnati il certificato di morte e i documenti che attestavano il trasferimento della salma nel cimitero di Berzo Inferiore». La famiglia successivamente affidò a un noto avvocato penalista di Brescia la pratica per la richiesta di risarcimento danni. «Le carte furono tenute ferme per due anni - si rammarica Giacomina Bertoni -, il tribunale militare fece passare la morte di Dina come causa di guerra e sulla vicenda è poi calato il silenzio assoluto. A noi non è mai stato trasmesso alcun documento, e la denuncia per occultamento di cadavere è rimasta lettera morta. A mio padre fu prospettata l'opportunità di assegnazione di una pensione quale famigliare di vittima civile, ma lui rifiutò sdegnosamente, preferendo rimanere 'povero e onesto'».
Giacomina Bertoni si guarda indietro e pensa all'assurdità di un assassinio che ha colpito una famiglia che tanto ha dato in sofferenza e sacrificio alla Patria: «Ora sono un'anziana mamma, nonna e bisnonna, per me il tempo declina - sottolinea - ma seguo qualche trasmissione, specialmente i telegiornali che in questi giorni commemorano i misfatti di 70 anni fa. E dico che si dovrebbe riflettere su questi tristi ricordi». A partire dalla guerra in Russia. «Mio fratello Nino, che era già militare, alpino del battaglione Edolo, fu mandato in Russia dove si congelò un piede e fu ricoverato all'ospedale proprio nei giorni della ritirata da Nikolajevka - racconta Giacomina Bertoni -; fu così preso e portato in Siberia nei campi di concentramento. Tornò dopo due anni dalla fine della guerra e la famiglia in quel periodo non ebbe mai sue notizie. Anche mio cognato Francesco, 29 anni, partecipò alla campagna di Russia con gli alpini e morì durante la ritirata. Mio fratello Battista, ancora recluta a Bolzano, nell'artiglieria, fu invece deportato in Germania e tornò 17 mesi dopo la fine della guerra, in uno stato di salute pietoso».
Mentre Giacomina Bertoni non aveva notizie dei fratelli, si consumò l'atroce delitto di Dina: «Come non si può riflettere su quel padre che pensava che i figli in guerra fossero morti e si trova a subire un fatto così grave? - si chiede l'anziana di Ceto -. Sono queste le cose che si possono dimenticare? Successe non lontano da noi, tra amici della stessa età e dello stesso paese. I miei fratelli al loro ritorno, felici di essere rimpatriati salvi dalla guerra, trovarono un'amara sorpresa. L'amata sorella, che aveva fatto loro da madre, dopo la morte della mamma quando erano ancora piccoli, non c'era più. "Dov'è Dina?" chiese Battista che fu il primo a tornare. Come si poteva rispondere se non con il pianto? Come poter affrontare questo sgomento? La voglia di vendicare la sorella era tanta e l'impotenza del non poterlo fare altrettanta. Furono momenti di pianto e di rabbia».
Nino Bertoni era rientrato in Italia e si trovava ricoverato all'ospedale di Pisa, stava bene ma aveva bisogno di cure.
«RIMESSOSI IN FORZE e vestito a nuovo - continua Giacomina -, arrivò a casa contento di trovare finalmente un po' di pace, invece mancava Dina. "Dov'è Dina?" chiese. Fu una scena incredibile: pianti e disperazione e voglia di vendicare la sorella. Ci volle tempo, tanta pazienza e preghiera per affievolire la rabbia e il dolore. Mio padre non aveva più parole perchè non è dato di conoscere la reazione provata da un genitore al momento del delitto di un figlio. Agli altri disse che aveva pregato tanto per quelli lontani, che erano tornati, e non aveva pregato per Dina, ma le vendette le farà il Signore».
QUESTI SENTIMENTI sono la ricchezza di una persona umile e sincera che ha affrontato con dignità tutte le disgrazie e i disagi della sua vita. «Dopo più di cinquant'anni scopro il segreto che nel delitto di mia sorella c'è stato uno sbaglio di persona, la vittima dovevo essere io perchè ero stata intravista con mio padre nella caserma di Breno della Guardia Nazionale Repubblicana: qui normalmente i contadini conferivano fagioli e prodotti agricoli per ricevere in cambio riso. E anche noi lo avevamo fatto - rimarca Giacomina -. Mia sorella fu vittima di una delazione. Gli autori di questi gravi errori non ci sono più, sono morti come eroi che hanno vinto la guerra. So di non avere voce in capitolo, ma nel tempo e nella storia le sofferenze e i danni arrecati alle famiglie colpite da ingiustizie ed errori non sono mai ricordati. Non è una favola questa, ma è ciò che la mia famiglia ed io abbiamo saputo affrontare con dignità e, se sarò ancora in vita ed il giornale me ne darà la possibilità, riprenderò e concluderò la storia. Resta agli altri il compito di giudicare».
Luciano Ranzanici

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