Il lager degli assassini rossi era l’oratorio. Il triangolo della morte che includeva Vado Ligure, Valleggia e Savona.
Dopo il 25 aprile del
1945, si era creato un triangolo della morte che includeva Vado Ligure,
Valleggia e Savona, dove sino agli anni 50 sparirono centinaia di persone,
diversissime fra di loro: repubblichini, borghesi benestanti oppure no, ex
militari monarchici, operai, impiegati, giovani oppure anziani, studenti,
femmine e maschi.
L’unico denominatore era rappresentato dai loro assassini, genericamente partigiani appartenenti a formazioni comuniste, che avevano acquisito, moto proprio, la qualifica di «poliziotti ausiliari», sino al loro scioglimento coatto nel luglio 1945 da parte degli alleati, a causa degli eccessi.
L’unico denominatore era rappresentato dai loro assassini, genericamente partigiani appartenenti a formazioni comuniste, che avevano acquisito, moto proprio, la qualifica di «poliziotti ausiliari», sino al loro scioglimento coatto nel luglio 1945 da parte degli alleati, a causa degli eccessi.
I «quadri effettivi» della cosiddetta Polizia Partigiana erano formati da
giovanissimi partigiani, nessun tipo di reclutamento a carattere concorsuale e
con titoli di cultura risibili o inesistenti, nessuna selezione quindi, nessun
corso di preparazione legale o amministrativa, nessun controllo sulla fedina
penale e su eventuali pendenze penali in corso, ovviamente nessun test
psico-attitudinale che ne potesse garantire la stabilità psicologica.
I gradi di ufficiale e sottoufficiale erano attribuiti per motivazioni
politiche o addirittura auto-attribuiti con grande disinvoltura, d’altra parte
il periodo storico e la consapevolezza del potere acquisto e, soprattutto,
mantenuto con le armi, permetteva arbitrii di questo e altro genere, tutti
comunisti duri, gestivano il potere di vita e di morte senza che nessuno li
potesse ostacolare in alcuna maniera, infatti le strutture statali, militari e
di ordine pubblico legate alla Monarchia, per un certo periodo dopo il 25
aprile 1945, dovettero rialzarsi dalle proprie macerie.
In quel momento i poliziotti partigiani potevano dire a ragione: «la legge sono
io» e nessuno li poteva contraddire. In questo contesto nella notte fra il 19 e
il 20 maggio 1945, sabato e domenica, una famiglia savonese, sparisce, dopo
essere stata fermata e trattenuta per «accertamenti», per alcuni giorni, in un
campo di prigionia, uno dei due famigerati gulag, creati e gestiti dai
partigiani comunisti, a Segno, Vado Ligure, e Legino, alla periferia di Savona.
Entrambi i campi di concentramento comunisti, erano in due siti, con poca
familiarità alla violenza e all’arbitrio: un oratorio e una scuola. Entrambe le
strutture, a suo tempo luoghi di tortura e sofferenza, sono ritornati alle
antiche destinazioni d’uso, dopo aver intonacato i muri interni, lordi di
sangue delle vittime che godevano della ospitalità dei poliziotti partigiani.
La famiglia che sparisce nel cuore della notte, è la famiglia Biamonti di
Savona, un nucleo benestante abitante in una villa di Via Crocetta a Legino.
Domingo Biamonti, ufficiale della Croce Rossa Militare, sua moglie Nenna
Naselli Feo, nobildonna savonese, entrambi ultracinquantenni, la figlia Angiola
Maria, 23 anni, studentessa e la servente Elena Nervo trentenne. Il fidanzato
della figlia, Luigi Rolandi, ex ufficiale degli Alpini, si attiva
disperatamente e muove tutte le sue conoscenze per ritrovare la famiglia
Biamonti, che tutti sapevano essere trattenuta nel campo di Segno.
Il comando partigiano accerta la estraneità dei Biamonti a qualunque forma di
collaborazionismo con i nazi-fascisti, ma tarda in modo sospetto a emanare il
provvedimento di rilascio e così nella notte tra il 19 e il 20 maggio 1945, un
gruppo di partigiani comunisti armati, con sospetto tempismo, preleva i
Biamonti, arbitrariamente, e li trasporta con un furgoncino sul piazzale
antistante il cimitero di Zinola, luogo abituale di tante esecuzioni sommarie.
Qui i poveretti alle 00.50, verranno assassinati con un colpo alla testa, dopo
che sono scesi dal mezzo, il furgone non doveva essere sporcato del sangue
delle vittime. Gli assassini, dopo essersi fatti aprire dal custode il
cancello, con un carretto, trasporteranno e butteranno i corpi in una fossa
trovata già aperta, prevista per una sola inumazione, presso il campo A, fila
14, fossa 12, senza alcuna bara, «come i cani», ghigneranno in quella occasione
i criminali. Dopo essersi ripuliti se ne andranno, lasciando il carretto sporco
di sangue fresco.
Dopo qualche giorno, gli assassini, per meglio occultare i corpi, collocheranno
sulla fossa una lapide fasulla, confezionata all’uopo, con sopra un nome di una
persona inesistente, «Luigi Tosi, di anni 84, la famiglia pose», con un
involontario senso dell’umorismo molto macabro. I Biamonti, quindi, all’insaputa
del mondo civile, sono stati trucidati e sepolti, come d’altronde accadeva a
tante persone innocenti dopo il 25 aprile 1945, nel Savonese. La voce della
loro uccisione inizia a circolare e Rolandi la apprende da un esponente del Pci
in un negozio di granaglie, in via Luigi Corsi, a Savona, il quale, messo alle
strette, afferma che l’uccisione è avvenuta durante un tentativo di fuga,
motivazione falsa in questo caso, e spesso usata ed abusata per mascherare
numerosi assassini perpetrati dai partigiani rossi.
Intanto, la villa dei Biamonti, in via della Crocetta, viene svuotata, in
diverse riprese dei mobili, delle stoviglie della biancheria e degli abiti. Un
sedicente «ufficio recuperi», va dalla villa con un camioncino e porta,
abusivamente, via casse di masserizie di proprietà dei Biamonti e ora dei loro
eredi.
Con i mobili dei Biamonti ci si arredano la casa alcune amichette dei
partigiani, con l’abbigliamento ci si vestono alcuni loschi personaggi, alcuni
monili in oro, sottratti alla Signora Nenna Naselli Feo in Biamonti, verranno
fusi da un orafo di Genova, su ordinazione di un partigiano, implicato nella
sparizione.
Arrivano ai carabinieri e alla procura diverse lettere anonime, che in modo
dettagliato accusano alcuni personaggi e chiariscono le motivazioni dell’eccidio,
iniziano le indagini portate avanti, coraggiosamente e fra mille difficoltà,
dal Procuratore Mario Torres e dal maresciallo dei carabinieri Oreste Anzalone.
La gente non sopporta oltre le prepotenze di un gruppo di partigiani comunisti
che, da Legino, impongono il terrore, ed inizia a parlare. Le investigazioni
appurano che ai Biamonti, al momento del fermo, sono stati sottratti gioielli e
denaro che non sono più stati ritrovati, oltre a dei libretti di risparmio e
buoni del tesoro che sono prima spariti e poi improvvisamente ricomparsi.
Il 29 luglio del 49 a distanza di quattro anni dalla sparizione, i carabinieri,
alla presenza del magistrato, effettuano uno scavo nella fossa 12, fila 14 del
Campo A del Cimitero di Savona, vengono riesumati 4 corpi in avanzato stato di
decomposizione, 3 di sesso femminile e uno di sesso maschile, che dalla
conformazione e dagli abiti vengono identificati per i Biamonti e per la
domestica Elena Nervo. Il medico legale Giovanni Panconi effettua i rilievi:
stabilisce che la morte è avvenuta per arma da fuoco e prima del piombo
mortale, la madre e la domestica, come appurerà l’autopsia, verranno
selvaggiamente percosse con il calcio del fucile sul capo mentre sono
accasciate, infatti il medico non troverà loro un solo osso intero del cranio.
Il clima omertoso è estremamente pesante, ma le indagini proseguono e portano a
perquisizioni presso l’abitazione di Rossi Luigi, detto Stella Rossa,
comandante del Campo di Legino, di Andreina Ghione, molto amica di Rossi,
ospitata benevolmente dai Biamonti e che poi che usò altre stanze più i mobili,
abusivamente della villa della famiglia scomparsa, Tissone Paolo partigiano
dipendente del Rossi, altri sentendo l’aria pesante si rendono irreperibili.
Vengono effettuati due fermi, Luigi Rossi e Mario Bergamasco, e si emette
regolare mandato di cattura per il delitto. Verranno effettuati processi, in
diversi gradi di giudizio, tribunale, Assise e Corte di Cassazione, con
numerose udienze, con gli imputati liberi e minacciosamente presenti, nel corso
dei quali entreranno ed usciranno dalla gabbia molti ex partigiani comunisti,
fieri e non pentiti del male che hanno arrecato a persone e famiglie innocenti.
Ci saranno delle condanne a 27 anni di galera, ma decine di anni di pena
verranno condonati a fronte di tante vite spezzate. Gli assassini sconteranno,
pochissimi anni di carcere.
La gente onesta ebbe, tuttavia, il coraggio di ribellarsi ad un sistema orrendo
che aveva legalizzato l’omicidio come pratica di annullamento di chi non la
pensava come te e come sistema per coprire furti, rapine e violenze gratuite.
Si scoprì una realtà terribile di criminali che rubavano e ammazzavano con l’impunità
del fatto di essere partigiani.
I Biamonti ora sono seppelliti, in pace, a Cogoleto, nella tomba di famiglia.
Con la loro tragica morte hanno contribuito a scoperchiare un pentolone pieno
di fango e sangue, mostrando il vero volto di chi li ha uccisi senza pietà.
Loro saranno ricordati per sempre come vittime, altri come spietati assassini.
Da Il Giornale
Da Il Giornale
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