I fratelli Govoni
San Giorgio di Piano è uno di quei grossi paesi agricoli che insieme ad Argelato, Pieve di Cento e San Pietro in Casale s’incontra a circa metà strada fra Bologna e Ferrara.
E’ pianura emiliana che beneficiò funestamente dei primi collaudi socialisti e rivoluzionari. L’odio di classe continua a trovarvi una lussureggiante pastura.
Nell’immediato periodo del dopo-liberazione in questa zona che giuppersù potrebbe essere ampia quanto la pianta di Roma, per intenderci, i «prelevati» sono stati 128. Centoventotto persone che una sera furono portate via dalla loro casa e che mai più hanno fatto ritorno.
Centoventotto.
Fin’ora se ne sono trovati in queste fosse comuni circa una metà. Dell’altra sessantina perfino il mistero della loro morte è cupo.
Nella macabra fossa di Argelato, dunque, sono stati rinvenuti diciassette cadaveri buttati alla rinfusa laggiù con un metro di terra addosso. Di questi, ben sette erano fratelli.
Sono i fratelli Govoni.
La mamma di questi sette figli «prelevati» vive ancora. Ha passato questi ultimi anni nell’angoscia dell’ignoto destino dei suoi figlioli, nella disperazione. Se non fosse venuta incontro la fede a questa povera madre fiaccata dall’enorme lutto, come avrebbe potuto assistere ai funerali senza maledire i colpevoli? Invece ha invocato il Paradiso per le sue creature ammazzate.
Fino a poco tempo fa non usciva di casa. Uscendo, l’avrebbero schernita. La madre dei «prelevati». Un titolo di orrore. C’era perfino chi le canticchiava «bandiera rossa» dietro.
Ma ricostruiamo 1’agonia che l’odio di parte inflisse a questa gente. Di diciassette solo uno porta segni di pallottole. Gli altri hanno tutti ossa spezzate e cranio fracassato. E’ tragico ricostruire gli istanti di quella rabbia inumana e cainitica sull’orlo di questa fossa la notte del I maggio 1945 quando ignoti sedicenti giustizieri hanno torturato codeste persone, picchiandole con bastoni e spaccando alla fine il cranio forse con colpi di ascia.
I sette fratelli Govoni li andarono a prendere uno per uno da casa. Si presentarono alcune persone dal vecchio padre la sera e bussarono alla porta.
Giuseppe andò ad aprire e si vide i mitra puntati contro. Marino, Primo, Dino. Perfino l’Ida presero. L’Ida era sposata e stava allattando il figlioletto Sergio. «Venite lo stesso con noi».
Non tornarono più. La mamma, mentre li caricavano sul camion venne fuori con un grosso pane, perché nel viaggio potessero mangiare un boccone.
«E’ un breve viaggetto — avevano assicurato gli uomini col mitra a tracolla — abbiamo solamente bisogno di interrogarli per una informazione». Non tornarono più. Qualche tempo dopo alla madre che disperatamente cercava una pista per onorare almeno il sepolcro dei suoi sette figli dissero tra lo scherno: «Vi occorre, buona donna, un cane da tartufi».
Nella fossa macabra di Argelato i cadaveri sono ammonticchiati disordinatamente. I carabinieri hanno rovesciato quel metro di terra che copriva tanta disumanità ed hanno intravvisto moncherini legati da filo spinato. Nella solitaria casa dei Govoni è restata solamente l’ultima figliola Maria a consolare la vecchia madre. Maria e il nipotino Sergio che oggi va all’Asilo e non sa
che la madre sua la «prelevarono» una sera mentre l’allattava.
Gli altri
Tra gli altri dieci cadaveri sono stati riconosciuti i quattro Bonora, Giovanni Caliceti, Alberto Bonvicini, Guido Mattioli, Guido Paricaldi e Vinicio Testoni.
I quattro Bonora appartengono a tre generazioni: il nonno, il padre, il figlio e un cuginetto. Ivo si chiamava e quando incominciò la guerra giocava ancora a rincorrersi attorno ai pagliai. Li invitarono a presentarsi al comando partigiano per il rinnovo della carta d’identità in quel lontano maggio del 1945. Andarono e da allora ecco qua i loro cadaveri nella fossa macabra di Argelato.
Caliceti quando lo vennero a chiamare da casa, andò tranquillamente, perché sapeva di non aver fatto niente a nessuno. Male non fare e paura non avere, diceva.
Malaguti, studente del terz’anno di ingegneria ed ufficiale della guerra di liberazione con gli alleati era appena tornato a casa da una settimana. Sparì.
La mamma lo cercava affannosamente. Per sei anni il dolore incerto di questa donna è andato vagando dappertutto. Ecco, suo figlio glielo restituisce questa fossa a pochi chilometri dalla sua casa.
Ecco un altro resoconto:
. . . Si era sparsa, frattanto, tra i partigiani della 2ª brigata Paolo e delle altre formazioni, la voce che stava per incominciare una “bella festa” nel podere del colono Emilio Grazia. Dapprima alla spicciolata, poi sempre più numerosi, i comunisti cominciarono a giungere alla casa colonica dove erano già prigionieri i sette Govoni.
Non è possibile descrivere l’orrendo calvario degli sventurati fratelli. Tutti volevano vederli e, quel che è peggio, tutti volevano picchiarli. Per ore nello stanzone in cui i sette erano stati rinchiusi si svolse una bestiale sarabanda tra urla inumane, grida, imprecazioni. L’indagine condotta dalla Magistratura ha potuto aprire solo uno spiraglio sulla spaventosa verità di quelle ore. La ferrea legge dell’omertà instaurata dai comunisti nelle loro bande ha impedito che si potessero conoscere i nomi di quasi tutti coloro, e che
furono decine, che quel pomeriggio seviziarono i fratelli Govoni. Si accertò, quando dopo molti anni furono scoperti i corpi, che quasi tutte le ossa degli uccisi presentavano fratture e incrinature.
Chi erano gli insensati esecutori dei fratelli Govoni e suoi sfortunati compagni?
La risposta: trattasi della famigerata e fantomatica “brigata Paolo”, ignota fino allora, non era probabilmente altro che un gruppo della 7ª GAP (Gruppi d’azione patriottica).
I partigiani della «2ª Brigata Paolo» infierirono con una crudeltà e sadismo veramente inconcepibili su ogni prigioniero.
Ida, la mamma ventenne, che non aveva mai saputo niente di Fascisti o di partigiani, morì tra sevizie orrende, invocando la sua bambina.
Quelli che non morirono tra i tormenti furono strangolati; e quando le urla si spensero definitivamente erano le ore ventitré dell’undici maggio. Avvenne, quindi, tra gli assassini, la ripartizione degli oggetti d’oro in possesso dei prelevati, mentre quelli di scarso o nessun valore furono gettati in un pozzo dove, anni avanti, saranno rinvenuti mentre si svolgeva l’indagine istruttoria.
I corpi delle vittime furono sepolti subito dopo in una fossa anticarro, non molto distante dalla casa colonica.
Per anni interi, sfidando le raffiche dei mitra degli assassini, sempre padroni della situazione, solo i familiari delle vittime cercarono disperatamente di fare luce su quanto fosse accaduto, nella speranza di poter almeno rintracciare i resti dei loro cari, primi fra tutti, i genitori dei fratelli Govoni.
Fu una ricerca estenuante, dolorosissima, ma inutile.
Nessuno volle parlare, nessuno volle aiutarli; molti li cacciarono via in malo modo, coprendoli d’insulti. Ci fu anche chi osò alzare la mano su quella povera vecchia che cercava solo le ossa dei suoi figli.
A Cesare e Caterina Govoni, sopravvissuti al più inumano dei dolori, lo Stato italiano, dopo lunghe esitazioni, decise di corrispondere, per i figli perduti, una pensione di 7.000 lire mensili: 1.000 per ogni figlio assassinato!
Anche se per quest’orrendo crimine ci fu un processo che si concluse con quattro condanne all’ergastolo, la giustizia non poté fare il suo corso perché gli assassini “rossi”, così come in altri casi, furono fatti fuggire oltre cortina e di loro si perse ogni traccia; successivamente, il crimine fu coperto da amnistia!
(tratto da NetEditor, autore Giammarco Dosselli e da Il Mascellaro)
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