“Erano partigiani delle brigate Garibaldi, con i fazzoletti rossi al collo. C’era un casolare poco distante. Urlavano.
All’improvviso apparvero i morti, saranno stati sessanta, settanta cadaveri, a mucchi sparsi. Contro i muri della casa erano allineati altri ragazzi come noi e i partigiani a gruppetti gridando e spingendo li ammucchiavano e li fucilavano.
Ci misero in fila accanto ad altri che si pisciavano addosso e ci cacavano sotto, letteralmente dalla paura.
I fucilatori partivano dalla destra della fila e cominciavano a falciare. Qualcuno non moriva subito e scappava via con un braccio o una gamba a brandelli urlando – mamma, mamma e quelli lo inseguivano e lo stendevano: uno di loro, sempre lo stesso, con un berrettino verde e la sigaretta in bocca, dava il colpo di grazia.
C’era puzza di merda e odore forte di sangue. Me ne stavo appoggiato al muro.
Accanto a me, dopo di me rispetto alla direzione dei fucilatori, c’era Angelo, che mi disse: - a 18 anni! - Sta zitto, risposi – c’è tempo (…). Non so come mi venne. Poi avrei ritrovato nell’idiota di Dostoevskij questa straordinaria dilatazione del tempo.
Ero tanto impegnato in questa escursione mentre la mano sudata di Angelo stringeva la mia mano destra, che mi accorsi dell’arrivo di una jeep con degli ufficiali italiani a bordo e uno, un capitano, che gridava: - Macellai! Vi faccio fucilare tutti – rivolto ai partigiani.
Urlava e agitava un bastone da passeggio.
Soltanto allora guardai la fila dei fucilandi e li contai: ce n’erano soltanto sette prima di me e Angelo”.
(Sottotenente della Guardia Nazionale Repubblicana, 3° compagnia, 63° battaglione, Giorgio Albertazzi).
Gianfranco Stella - Scrittore
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