Opera teatrale, questa, scritta a quattro mani, dove gli autori ricordano - tramite Angelino, pastore ciociaro che dialoga con Enzo, giornalista di Epoca che, alla fine, si scoprirà essere Enzo Biagi - “l’altra faccia della liberazione”, cioè quello che accadde, nel 1944, in alcuni paesi della Ciociaria “schiacciati in mezzo a due fuochi, da una parte il muro dei tedeschi, dall’altra, gli americani che avanzavano”, dopo che gli Alleati riuscirono a penetrare la linea Gustav - duecentotrenta chilometri di trincee e bunker costruite in mezzo alle montagne con migliaia di soldati tedeschi nascosti in mezzo alle rocce - grazie all’impiego di uno strano esercito composto da soldati provenienti dalla aspre montagne del Nord Africa.
“Li chiamavano i Marocchini. E la cosa peggiore che si diceva era che prendevano tutto quello che trovavano, soprattutto le donne e le violentavano senza pietà.” Furono loro, i Marocchini o, meglio, i Goumiers, come venivano denominati in francese, a stanare i tedeschi in giro per le montagne. E il loro comandante, il generale Alphonsine Juin, così disse: “Oltre quei monti, oltre quei nemici che stanotte ucciderete, c’è una terra larga, ricca di donne, di vino, di case. Se voi riuscirete a passare oltre quella linea, senza lasciare vivo un solo nemico, il vostro generale vi promette, vi proclama che quelle donne, quelle case, quel vino, tutto quello che troverete sarà vostro, a piacimento e volontà. Per cinquanta ore. E potrete avere tutto, distruggere o portar via, se avrete vinto, se ve lo sarete meritato.” E mentre a Roma gli americani, sfilando per le strade, regalavano cioccolata e sigarette, “in Ciociaria, i soldati con i carri armati che regalano le sigarette e la cioccolata, mica si sono visti! Qua la storia è da riscrivere! […] Perché questa è una storia che se non sei di queste parti, mica la conosci. […] Una storia sconosciuta successa in una terra sconosciuta. La Ciociaria.”
In tre giorni i Goumiers fecero l’Inferno. “Ad Ausonia ed Esperia, più di 800 donne hanno preso, madri, figlie nonne, bambine. […] Ma mica gli sono bastate quelle povere disgraziate. No! Allora via a Castro dei Volsci, Castelforte, Vallecorsa, Patrica, Pofi, Isoletta, Lesola, Supino, Morolo, Sezze, Roccagorga, Pico. Più di venti giorni sono stati qui ad ammazzare, violentare, rubare oro, animali. Pure i corredi per la casa si rubavano gli Alleati! I nuovi liberatori! […] Don Alberto era il parroco di Esperia, che s’era messo a difendere tre ragazze, l’hanno impalato al centro della piazza davanti a tutti.”
Il numero esatto di queste violenze non si è mai saputo, anche perché le donne si vergognavano di sporgere denuncia. “Marocchinate le chiamavano, era un marchio a fuoco.” Non c’erano soldi per comprare le medicine per curare le malattie che avevano lasciato i marocchini. E quindi si moriva. E le donne che si salvavano vivevano male perché “quando ti sporcano l’anima non ci sta niente che ti può guarire.”
Erano disprezzate dai mariti e dalla gente del paese, le marocchinate, come se avessero la peste, finchè un giorno si ribellarono e iniziarono a urlare. E le loro urla arrivarono in parlamento. Ma furono urla inutili perché “un politico ha avuto il coraggio di dire che non era vero niente! Che le malattie le hanno portate i mariti tornati dalle guerre e che in tutta la Ciociaria solo tre donne sono state violentate dai marocchini.” Ma i protagonisti di questo racconto sanno che non è così e lo dedicano alle “migliaia di vittime di questa brutta e tragica pagina di storia perché […] l’uomo che non onora il passato non è degno di vivere il presente e sarà incapace per il futuro.”
Gianlorenzo Capano
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